Alice Gabbriellini
(Questo articolo nasce da una tesi universitaria, che ha poi ricevuto il premio Ventimiglia: un auspicio per tutto ciò che le nuove generazioni cambieranno, anche nel Giornalismo).
La pandemia di COVID-19 ha messo ancora di più in evidenza come il mondo del lavoro non sia pensato e progettato per ben il 51% della popolazione. Secondo fonti ISTAT, infatti, a dicembre 2020 a fronte di 101 mila posti di lavoro in meno, 99 mila sono stati persi da lavoratrici. Estendendo il rilevamento dei dati all’intero anno la situazione appare ancora più grave:
il 70% dei 444 mila nuovi disoccupati è donna. E se già nel 2019, secondo le stime del World Economic Forum, ci sarebbero voluti 99,5 anni per colmare la disparità di genere, ad oggi le statistiche sono ancora meno incoraggianti. Le ragioni che hanno condotto a tale susseguirsi di licenziamenti sono diverse. Innanzitutto le donne sono ancora ritenute le uniche responsabili dello svolgimento delle mansioni di cura (educazione dei figli, accudimento dei parenti anziani, pulizia della casa e spesa familiare). Le incombenze quotidiane a cui devono far fronte le inducono quindi a prediligere contratti part-time, che presuppongono stipendi più bassi e ruoli meno qualificanti che solitamente sono i primi ad essere dispensati.
In aggiunta, il lavoro femminile continua ad essere visto come un surplus: un’entrata utile, ma non indispensabile. Tuttavia, fin quando si continuerà a vedere le donne come uniche responsabili delle mansioni riproduttive e gli uomini di quelle produttive, purtroppo le cifre non potranno cambiare. Si spiega così la necessità di portare al Senato, ad esempio, l’emendamento presente nel Family Act che chiede l’estensione del congedo di paternità ai tre mesi successivi al parto, proprio com’è previsto per le madri. Qualora venisse approvata la suddetta proposta di legge, le candidate ad un impiego non subirebbero più discriminazioni durante i colloqui di assunzione (quando fastidiosamente viene chiesto loro se hanno figli o intendono averne), ci sarebbero meno licenziamenti ingiusti e le neomamme potrebbero rientrare prima al lavoro essendo coadiuvate dal partner. È indubbio che anche quest’ultimo ne trarrebbe considerevoli vantaggi, in quanto potrebbe iniziare ad intessere un rapporto con il figlio/a fin dai primi giorni di vita e a godere appieno del proprio ruolo di padre.
In aggiunta, secondo i dati riportati da Azzurra Rinaldi, docente presso l’Università di Roma Unitelma Sapienza e co-autrice insieme a Elisabeth Klatzer dello studio “#nextGenerationEU Leaves Women Behind”, per ogni cittadina assunta per la prima volta o reintegrata si andrebbero a creare di conseguenza ben altri tre posti di lavoro. Infatti, intraprendendo o riprendendo una carriera, le lavoratrici non sarebbero più responsabili direttamente delle mansioni di cura non retribuite e le famiglie per sopperire dovrebbero affidarsi a personale specializzato o strutture ad hoc. La stima appena descritta è per altro confermata dalla Banca d’Italia che ha evidenziato come un innalzamento del tasso di occupazione femminile al 60% (in linea con il Trattato di Lisbona) consentirebbe il raggiungimento di un PIL maggiore del 7%.
Purtroppo ad oggi i luoghi d’impiego e i relativi orari non corrispondono ancora alle esigenze delle donne. Tanto è vero che in Italia di queste ultime solo poco più del 40% percepisce uno stipendio. È per questo necessario dare i numeri, renderli pubblici e discuterne, in modo da capire per quali riforme occorre battersi e come fare per dare al lavoro femminile il giusto valore. D’altra parte, parafrasando l’attivista Carol Hanisch, è dalla presa di coscienza e dall’esperienza personale che si può fare politica.
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